I divari territoriali, parte seconda. Come varia l’indice di occupazione (spoiler: attenzione alla definizione dell’indice) in Europa? E, se consideriamo questo indicatore, i divari territoriali aumentano o diminuiscono nell’ultimo ventennio?
Nuovo esercizio sui divari territoriali, questa volta basato sull’indice di occupazione (employmet index), che potremmo definire come il rapporto tra occupati e popolazione residente.
Non è un indicatore utilizzato correntemente in letteratura, ma è l’unico disponibile a livello locale relativamente ai temi del lavoro ed è questo il vero motivo per cui è stato utilizzato. Si tratta, in realtà, di una combinazione di altri due indici ovvero del tasso di attività e del tasso di occupazione (1)

in cui L è l’occupazione, Pop è la popolazione residente e Pop15-64 è la popolazione in età lavorativa.
L’employment index prende quindi in considerazione due dinamiche del sistema socio economico: una dinamica prettamente economica, dato che il tasso di occupazione è determinato dalla domanda di lavoro delle imprese e dalla disponibilità di forza lavoro disposta ad essere occupata; ed una prevalentemente – anche se non esclusivamente – demografica, dato che il tasso di attività dipende dal numero delle persone in età lavorativa. Ora, come si vede dall’analisi della figura che segue, nonostante un andamento ciclico dovuto in larga misura alla doppia recessione che ha colpito l’economia europea tra il 2008 ed il 2012, l’indice di occupazione è cresciuto nel corso degli ultimi vent’anni. Il tasso di crescita della media (+6.57%) e della mediana dell’indice (+5.92%) è infatti simile sia in termini di livelli che in termini di dinamiche.

Le due figure che seguono replicano quelle presentate nel precedente contributo sui divari regionali in termini di prodotto interno lordo pro capite.
La distribuzione territoriale dell’employment index non si discosta infatti significativamente da quella del prodotto interno lordo pro capite: la direttrice che unisce i paesi mitteleuropei a quelli anglosassoni presenta i più elevati valori dell’indice, mentre tale valore è più contenuto nei paesi mediterranei. Rispetto ai dati sul prodotto interno lordo pro capite, i paesi nordici presentano valori relativamente meno elevati e quelli dell’Europa orientale fanno registrare invece un minor divario rispetto alla media continentale. Per l’Italia si conferma l’esistenza di un dualismo che contrappone le regioni settentrionali (con valori relativamente elevati dell’indice di occupazione) a quelle del Mezzogiorno (nelle quali, invece il valore dell’indice di occupazione è molto inferiore alla media europea).
Anche la dinamica dell’occupazione nel periodo 2000-2019 segnala un trend non dissimile da quello che era emerso per il prodotto interno lordo pro capite, anche se meno chiaramente definito. Gli occupati aumentano fortemente nei paesi dell’Europa orientale ma sono significativi anche gli incrementi registrati nei paesi in cui i valori dell’employment index è superiore alla media europea ovvero nei paesi mitteleuropei, anglosassoni e nordici. Risulta molto inferiore alla dinamica media europea, invece, la variazione dell’occupazione nei paesi che già segnalano una certa minore capacità di creare occupazione, con la parziale eccezione di alcune regioni della penisola iberica.


Infine non resta che prendere in considerazione l’andamento del divario espresso in termini di indice di occupazione, attraverso gli indicatori già segnalati in precedenza ovvero il coefficiente di variazione e l’indice di Williamson. In questo caso si assiste ad un aumento dei divari che appare come l’effetto di tre fasi distinte: una fase inziale in cui i divari si riducono (2000-2006); un secondo periodo – che coincide sostanzialmente con le due crisi (2006-2014) – in cui i divari aumentano fortemente; ed un terzo periodo (2014-2019) in cui i divari si riducono leggermente o sono costanti.

L’andamento dei divari in termini di employment index è interessante perché segnala che i divari diminuiscono in periodi di congiuntura favorevole e aumentano in caso di riduzione del livello dell’attività economica: le regioni periferiche sarebbero quindi più esposte agli shock.
Peraltro, si può anche mettere in evidenza che anche quando i divari in termini di employment index si riducono, quelli in termini di prodotto interno lordo pro capite tendono ad aumentare e ciò segnala un’ulteriore debolezza delle regioni periferiche: il non riuscire a tradurre la capacità di colmare il gap che le separa dalle regioni core in termini di occupazione in riduzione del divario in termini di prodotto interno lordo pro capite (2).
NOTE
(1) Cfr. i lavori seminali di Giorgio Fuà, Occupazione e capacità produttive: la realtà italiana, Bologna, Il Mulino, 1976 e Giorgio Fuà, Problemi dello sviluppo tardivo in Europa, Bologna, Il Mulino, 1985. Più recentemente questa analisi è stata ripresa – con diverse sfumature – da Bruno Pellegrino, Luigi Zingales, Diagnosing the Italian Disease, NBER Working Paper, n. 23964, ottobre 2017 (con un’enfasi particolare sulla dinamica della produttività del lavoro) e Federico Barbiellini Amidei, Matteo Gomellini, Paolo Piselli, Il contributo della demografia alla crescita economica: duecento anni di “storia” italiana, Banca d’Italia. Questioni di Economia e Finanza, n. 431, marzo 2018 (che hanno sottolineato maggiormente l’impatto delle dinamiche demografiche sulla crescita).
(2) In realtà, la questione sembra un po’ più complessa di come è stata presentata e questa incapacità sembra riguardare in modo particolare le regioni dell’area mediterranea (incidendo sul valore complessivo degli indici che misurano il divario), dato che il prodotto interno lordo delle regioni dell’Europa Orientale è invece fortemente correlato alla dinamica dell’occupazione.
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