Il metodo di Mr. Goodman è elementare come la sua filosofia. Il suo unico intento è presentare il “povero Knight” come un prodotto e una vittima di quello che lui chiama “il nostro tempo” – anche se per me è sempre stato un mistero perché mai certe persone abbiano tanta voglia di coinvolgere gli altri nei propri concetti cronometrici.
La vera vita di Sebastian Knight, Vladimir Nabokov
Negli ultimi mesi ho svolto con alcuni colleghi – nell’ambito di un progetto europeo Interreg (1) – un’analisi sulla domanda di competenze nel settore delle costruzioni. I risultati di questa analisi non possono essere diffusi perché occorre rispettare un vincolo di riservatezza che è abbastanza usuale in progetti di questo genere. Inoltre non sarebbe probabilmente così interessante fare una ‘lista della spesa’, un elenco delle competenze che le imprese maggiormente richiedono sul mercato del lavoro.
Approfondire la natura e le dinamiche di questo settore ha tuttavia consentito di mettere in luce alcuni aspetti che non hanno a che fare direttamente con il mercato del lavoro (2). Nel seguito vorrei declinare queste riflessioni in termini di sviluppo economico, circa quarant’anni dopo che un analogo processo di interazione tra discipline così differenti ha generato una mole di studi talmente importante da rendere gli economisti italiani famosi a livello internazionale. Certo, rispetto a quel periodo sono cambiate le condizioni di contesto e, in molti casi, anche gli obiettivi dell’analisi. Ciò impone di riconsiderare – anche criticamente – quelle analisi, ma resta che la contaminazione tra economia industriale ed economia dello sviluppo rimane feconda.
In particolare, questa analisi ha reso possibile esplicitare l’ipotesi che le dinamiche di questo settore potrebbero rappresentare una sorta di lezione su come dovremmo (o forse saremo obbligati a) intendere i processi di sviluppo in un prossimo futuro.
Il settore delle costruzioni: è davvero brutto, sporco e cattivo?
La rappresentazione che l’immaginario collettivo ha del settore delle costruzioni è quella di un settore popolato di persone (imprenditori e lavoratori) con basse qualifiche, poco istruite, a cui si richiede capacità di sopportare carichi di lavoro elevati, rischi per la salute rilevanti, salari mediamente molto bassi. Inoltre è un settore che, quasi per definizione, viene considerato a basso valore aggiunto sia per ragioni di offerta (si ritiene che la produzione di valore sia legata all’utilizzo della risorsa lavoro, mentre invece il capitale sarebbe poco utilizzato) che di domanda (la domanda di abitazioni, dopo il boom di inizio millennio, appare stagnante anche per ragioni demografiche). Sotto molti punti di vista questa rappresentazione trova conferma nei dati disponibili (3).
La dimensione media delle imprese del settore delle costruzioni è molto contenuta: secondo le stime dell’ANCE, quasi il 90% delle imprese del settore delle costruzioni ha un fatturato inferiore a 500.000€; a conferma della fragilità del sistema delle imprese edili, si può sottolineare come il 62.2% delle imprese edili impieghi un solo addetto ed il 96.0% impieghi meno di dieci addetti.

Come ci si può attendere, la capacità di queste microimprese di investire ed accrescere la propria produttività è nettamente inferiore a quella degli altri macrosettori: non solo le imprese che investono sono quelle di dimensioni maggiori, ma tali investimenti interessano soprattutto le funzioni aziendali deputate a contenere i costi di produzione. In effetti, nel corso delle interviste che abbiamo effettuato appare abbastanza evidente che è prevalente – pur se non esclusivo – un pattern organizzativo per cui la gestione dei progetti viene assunta da imprese di dimensione grandi o medie (dipende dall’entità dell’investimento), che poi subappaltano alle microimprese la maggior parte delle lavorazioni: la gestione del progetto è quasi interamente rivolta a contenere i costi, l’attenzione alla qualità del prodotto, all’innovazione di prodotto e di processo, è generalmente minima.

Tuttavia, le dinamiche del sistema economico negli ultimi quindici anni (approssimativamente dalla crisi dei mutui subprime ad oggi) hanno modificato le condizioni di contesto in cui operano le imprese edili, preparando il terreno per una ridefinizione delle caratteristiche del settore delle costruzioni. Se, ad esempio, si considera il periodo più recente per il quale sono disponibili dati statistici, emerge chiaramente che il settore delle costruzioni subisce una contrazione molto superiore a quella registrata a livello di sistema economico complessivo: questa ristrutturazione interessa per lo più le imprese di dimensioni inferiori e con minore capacità di investimento.

In definitiva, accanto alla rappresentazione di un settore brutto, sporco e cattivo è forse possibile scorgere un cambiamento delle dinamiche in atto, che potrebbe determinare nel medio periodo un profondo cambiamento delle caratteristiche del settore delle costruzioni. L’ipotesi che vorrei suggerire è che, se questo cambiamento si realizzerà, avrà a che fare con le dimensioni dell’organizzazione del sistema di costruzione dell’edificio e della sua sostenibilità nel lungo periodo. Come si vedrà, queste due dimensioni svolgono un ruolo importante anche nel caso in cui si considerino i processi di sviluppo economico.
La questione organizzativa
Per quanto riguarda il primo aspetto, quello dell’organizzazione del sistema di costruzione dell’edificio, nella relazione cui ho accennato in precedenza sono stati evidenziati alcuni cambiamenti strutturali che interessano il settore: la suddivisione – che in parte si deve anche allo sviluppo straordinario del settore nei primi anni del millennio – del processo produttivo in un numero crescente di fasi/lavorazioni; il coinvolgimento nel processo di realizzazione dell’edificio di un crescente numero di attori, ognuno dotato di competenze specifiche (si pensi all’impiantistica); la necessità di mettere in relazione tali risorse umane e tali competenze con l’aspetto organizzativo dell’impresa edile.
Ciò rende ragionevole attendersi che le microimprese sopravviveranno solo se evolveranno nella direzione indicata da questi cambiamenti strutturali e, in particolare, si può ritenere che continueranno a svolgere un ruolo se si specializzeranno in una singola fase produttiva. Si determinerà verosimilmente anche un cambiamento dei rapporti tra impresa capocommessa e imprese che lavorano in subappalto: come accennato, il sistema organizzativo tradizionale ai basava sul rapporto diretto tra impresa capocommessa e imprese sostanzialmente despecializzate che svolgevano lavorazioni in subappalto e che competevano sul prezzo; questi cambiamenti indicano invece che la rete delle relazioni tra gli attori che contribuiscono alla costruzione dell’edificio si fa molto più fitta e che le relazioni tra gli attori non si baseranno più esclusivamente sul prezzo, ma anche sulla specializzazione del contoterzista e sulla qualità del servizio offerto.
A tutte queste domande poste dal cambiamento della struttura organizzativa del cantiere è stato possibile rispondere attraverso lo sviluppo di nuove tecnologie, attraverso la creazione di nuovi strumenti di progettazione e di interfaccia tra gli operatori del settore. Da questo punto di vista, il B.I.M. (Building Information Modeling) rappresenta uno strumento attraverso il quale è possibile integrare differenti lavorazioni e attori in un unico progetto definito in uno spazio tridimensionale (3D), in cui vengano però presi in considerazione anche i tempi di esecuzione (4D) e i costi (5D) relativi alla realizzazione delle lavorazioni, gli aspetti gestionali legati al ciclo di vita dell’edificio (6D) e la sostenibilità nel lungo periodo dell’edificio stesso (7D).
La domanda che ora possiamo porci è se sia possibile operare una traslazione della questione organizzativa dall’economia industriale allo sviluppo economico? Nella misura in cui individui ed organizzazioni entrano in relazione tra loro attraverso varie modalità (4) è verosimile pensare a come tali relazioni possono essere coordinate e, nel caso, a come tale coordinamento possa essere realizzato. In particolare, la comparsa sulla scena di nuovi attori, di nuove reti di relazioni sia corte (come avveniva tradizionalmente nei modelli di industrializzazione basate sulle grandi imprese e poi nei distretti industriali) che lunghe (come avviene oggi attraverso la costituzione delle catene globali del valore), di strumenti che rendono le interazioni più rapide obbliga a considerare il fatto che il sistema sociale sia in qualche misura più difficile da amministrare e che ciò richieda un cambiamento dei sistemi di governance.
Utilizzo a questo proposito un esempio che è affine al mio campo di studi principale – l’economia territoriale – e cioè l’analisi della segregazione razziale operata da Thomas Schelling (5). Schelling ipotizza che esista una regola di comportamento individuale in base alla quale le persone decidono di cambiare abitazione se cresce il numero dei propri vicini di casa di etnia diversa dalla propria. Anche nel caso in cui gli individui abbiano deboli preferenze razziali (nel caso cioè in cui accettino un numero molto elevato di vicini dissimili da loro), l’applicazione della regola conduce alla formazione di ghetti urbani. Nella figura che segue si ipotizza che la distribuzione delle etnie sia casuale o perfettamente omogenea: nel primo caso, l’interazione tra individui produrrà naturalmente effetti di segregazione; nel secondo caso, basterà introdurre un elemento di disomogeneità per avere segregazione.

Il modello è importante sotto molti punti di vista.
- In primo luogo, è un sistema che tende verso un equilibrio (in effetti la costituzione di ghetti urbani corrisponde a degli equilibri), ma tale equilibrio è generalmente instabile e può essere modificato.
- In secondo luogo, gli equilibri sono modificati da numerose ‘perturbazioni’ che hanno origine da comportamenti individuali, sovente iperlocalizzati (l’individuo prende decisione sulla base dell’etnia dei propri vicini e non, ad esempio, su quella dei vicini dei propri vicini) e spesso senza un collegamento forte con una visione della società.
- Infine, nonostante la quasi-casualità delle decisioni individuali, i comportamenti generano effetti sociali importanti e difficilmente prevedibili: la segregazione razziale non è prevedibile, né si può facilmente prevedere quale configurazione territoriale assumerà; in modo analogo sono anche difficilmente prevedibili altri fenomeni localizzativi come quello della gentrification di quartieri tradizionalmente degradati o quello del recupero di antichi borghi disabitati.
Il sistema tende quindi a riorganizzarsi continuamente in risposta a stimoli che – a livello di sistema – possono essere considerati non intenzionali.
Se si vuole spingere l’astrazione ancora un po’ più in là, in un approccio di questo tipo variano i modelli di razionalità ed anche le misure di policy che è preferibile adottare in risposta alle micro-perturbazioni che possono generare macro-cambiamenti.
Per quanto riguarda i modelli di razionalità, tradizionalmente nell’approccio di ispirazione marginalista la razionalità viene utilizzata per risolvere problemi elementari, in cui si fa astrazione di tutto tranne che della relazione causa-effetto che si vuole indagare, che nel caso specifico ha a che fare con l’allocazione efficiente delle risorse disponibili: sono, in altre parole, modelli riduzionisti o lineari (6). In termini di policy, l’approccio marginalista definisce pertanto gli interventi di politica economica in base al principio della massimizzazione dell’utilità generale nel rispetto di dati vincoli economici, privilegiando – come si accennava in precedenza – il raggiungimento di un’efficienza allocativa delle risorse disponibili.
D’altra parte, anche i modelli economici di ispirazione marxiana tendono a ridurre gli elementi di complessità alle relazioni – questa volta – tra classi sociali, che per lo più sono essenzialmente definite in termini di rapporti di produzione tra capitale (profitti) e lavoro (salari). Nei modelli di ispirazione marxiana, le misure di policy sono pertanto definite in base ad un approccio che fa della sfera redistributiva il luogo in cui si affrontano e si risolvono i conflitti sociali.
In entrambi i casi, la variabile spaziale può assumere al massimo due stati: lo spazio dell’assenza di crescita/del sottosviluppo e lo spazio della presenza di crescita/dello sviluppo. E in entrambi i casi questo dualismo territoriale è visto come un limite da superare e questo può essere fatto piuttosto semplicemente, facendo convergere le variabili che determinano la crescita/sviluppo verso un valore di equilibrio: semplificando un bel po’, nel caso dell’economia marginalista la remunerazione dei fattori convergerà verso un valore di equilibrio attraverso la mobilità dei fattori, mentre nel caso delle analisi di ispirazione marxiana tale convergenza sarà assicurata attraverso l’intervento dell’operatore pubblico nella fase di redistribuzione del reddito.
Il caso appena descritto rende queste interpretazioni troppo semplicistiche per la complessità di una realtà che è semplicemente differente perché prende in considerazione molte più variabili (e non tutte facilmente spiegabili, data la loro non linearità): richiede un modo di razionalizzare i problemi differente, richiede un modo di intervenire sul reale drasticamente diverso da quello sperimentato fino ad ora. Ed è per questo motivo che – quarant’anni dopo, per l’appunto (7) – la variabile spaziale diviene nuovamente centrale nell’analisi, perché le interazioni locali sono alla base delle differenti configurazioni territoriali e variano continuamente: la molteplicità dei territori non solo non rappresenta un limite da superare, ma è anzi l’esito dell’esistenza di processi non lineari che devono essere attentamente studiati; e gli interventi di policy smettono di avere una valenza universale ma – per essere efficaci – devono essere adattati a tali contesti locali.
Il tema della limitatezza delle risorse naturali
Naturalmente, il tema organizzativo era già ben presente nel dibattito sui distretti industriali: il reticolo di imprese e attori sociali che era alla base di quel modello di sviluppo ha rappresentato uno dei principali contributi che quella stagione ci ha lasciato in eredità, anche se è stato poco o nulla fecondo nel definire misure di policy che consentissero la gestione di quella complessità relazionale.
Se si considera invece il tema della crescita quantitativa, l’approccio era ancora per lo più tradizionale. Certamente le analisi di Piore e Sabel (8) avevano in qualche modo reso popolare l’idea che la natura dei beni prodotti si fosse modificata rispetto al modello dell’industrializzazione di massa, mettendo al centro della scena la diversificazione delle preferenze, la personalizzazione dei prodotti, la possibilità di produrre efficientemente in serie piccole, ecc.
E, tuttavia, questo spostamento dell’ottica non aveva modificato in modo sostanziale l’idea che le economie di scala giocassero ancora un qualche ruolo (9), che la specializzazione flessibile fosse solo un’altra strategia per raggiungere il consueto obiettivo di espandere la propria capacità produttiva, per lo più in un contesto di sbocchi di mercato che non si ampliavano. Tanto è vero che, quando istituzionalmente si posero le basi per ottenere questo ampliamento delle dimensioni del mercato (10), la diversificazione delle preferenze si trasformò di nuovo in omologazione delle scelte del consumatore, in globalizzazione dei bisogni prima ancora che dei prodotti. In Etiopia si vive al limite della sussistenza, ma ci si possono procurare molte bevande gasate con le quali le bambine possono farsi originali corone da principessa.

Rafal Ziejewski, Ethiopian Girl, http://www.typoty.com, 2015
Ritornando ai distretti industriali, la globalizzazione li ha costretti – con esiti alterni, ma comunque non scontati (molti sono ancora leader di mercato) – ad adattarsi al nuovo contesto competitivo, alla ‘dittatura’ delle global value chains. E quell’esperienza di riformare dal basso il capitalismo è andata, a mio avviso, sostanzialmente sprecata.
Quarant’anni dopo quell’occasione si ripresenta perché il sistema capitalistico si trova nuovamente di fronte a un vincolo alla crescita, che ancora una volta è rappresentato dalla difficoltà a espandere i mercati di sbocco e che in qualche modo gli impone di ridefinirsi. Tale vincolo dipende, questa volta, non tanto dalla necessità di garantire che un maggior numero di persone possa accedere ai mercati di consumo (cosa che di fatto sta avvenendo), ma piuttosto dal fatto che l’accesso globale al mercato mette a rischio la capacità del pianeta di rigenerare le risorse utlizzate nel processo produttivo.
Ora, qui entro in un campo che conosco poco, vale a dire quello dell’economia ambientale. Per questo motivo non tratterò in modo approfondito il tema, se non per ricordare le proccupazioni di un crescente numero di economisti relativamente alla capacità del sistema ecologico di sostenere a lungo processi di crescita come quelli tradizionali. Herman Daly, ad esempio, pone i termini della questione in modo schematico ma ‘marginalisticamente’ efficace (11): il sistema capitalistico tradizionale si basa sulla crescita del capitale e del lavoro attraverso i quali si producono i beni di consumo, ma tale crescita dipende dall’utilizzo di materia ed energia a bassa entropia dell’ecosfera, che sfortunatamente sono risorse scarse. Può quindi verificarsi il caso in cui una crescita quantitativa della produzione oltre certi livelli produca una riduzione delle risorse naturali la cui disutilità marginale è superiore all’utilità marginale derivante da maggior consumo. In questo caso, è ovvio che porre un limite alla capacità produttiva potrebbe essere conveniente.

Ebbene, tutte queste suggestioni, tutta questa ricorrente tensione tra globalizzazione e rigenerazione della biosfera, tra efficienza dei mercati e benessere degli individui è di fatto già presente nelle dinamiche del settore edile. Che è sì un settore brutto, sporco e cattivo, ma ha anche un potenziale di innovatività – che va dalla ricerca sui materiali da costruzione ai progressi dell’impiantistica, dal concetto di casa passiva all’urbanistica sostenibile – che, sebbene ancora non completamente espresso, può generare effetti importanti sulle dinamiche del sistema socioeconomico.
Dentro questo settore operano infatti anche persone con grandi capacità, con competenze specifice e di elevato livello e in grado di realizzare progetti innovativi, il cui impatto sulla qualità della vita degli individui e sul minor consumo di risorse naturali è potenzialmente dirompente. Quello che questi professionisti visionariamente propongono è in definitiva accrescere la qualità della vita degli individui, salvaguardando la capacità di riproduzione della biosfera. E’, se mi è consentito il paradosso, un modello di sviluppo economico – crea infatti valore aggiunto, lavoro, qualità della vita – che si realizza attraverso la riduzione della quantità di beni prodotti e consumati.
Tassonomie
Nel tentativo di mettere insieme le due dimensioni – la capacità di gestire organizzazioni complesse e la capacità di gestire i processi di innovazione tecnica al fine di garantire la sostenibilità ambientale -, abbiamo infine tentato di costruire una tassonomia di imprese edili (12), con lo scopo evidente di operare una sintesi di dinamiche di per sé molto disomogenee e con il rischio, altrettanto evidente, di semplificare troppo la complessità del reale. Al di là dei vantaggi e dei limiti di operazioni di questo tipo, è stato possibile individuare quattro imprese idealtipiche.
- Imprese tradizionali. Le imprese di costruzioni che rientrano in questa tipologia sono di piccola o piccolissima dimensione e si caratterizzano per una organizzazione del lavoro tradizionale, gestite secondo routine produttive e pratiche di attenta gestione dei costi maturate nel tempo. L’attenzione alla dimensione organizzativa e alla capacità di gestire tecniche produttive innovative è minima, la strategia adottata è quella di posizionarsi in nicchie di mercato generalmente costituite dalla costruzione di residenze per famiglie e da interventi di manutenzione e/o di piccola ristrutturazione degli edifici.
- General contractor orientati alla competizione di prezzo. Sono imprese che prendono in carico la completa esecuzione di un progetto di costruzione/ristrutturazione di un edificio attraverso la gestione dei rapporti con un crescente numero di tecnici e professionisti coinvolti nella fase di progettazione/esecuzione dell’edificio. La strategia adottata consiste in questo caso nella compressione dei costi di produzione che avviene implementando l’aspetto organizzativo (via esternalizzazione degli aspetti esecutivi del processo), così che viene meno il controllo su alcuni aspetti strategici come la gestione del processo di innovazione tecnica (anche in questo caso delegata a soggetti esterni).
- Imprese specializzate che garantiscono servizi di alta qualità. Sono imprese di dimensioni disomogenee, caratterizzate da una spiccata propensione all’innovazione e da elevate competenze tecniche, che – a vario titolo – eseguono singole o poche fasi del processo di progettazione/realizzazione di un edificio. La loro capacità tecnica li mette al riparo dalla difficoltà a trovare sbocchi di mercato, ma non avendo il controllo gestionale del processo in cui sono coinvolti, finiscono per dipendere dal lavoro commissionato da terzi, ciò che incide pesantemente sui loro margini.
- General contractors con approccio ‘bilanciato’. Anche in questo caso, si tratta di imprese che si assumono l’onere di gestire tutti gli aspetti dell’esecuzione dell’edificio e, tuttavia, questo obiettivo non è perseguito in un’ottica di esclusivo contenimento dei costi. Queste imprese investono infatti in tecnologie produttive innovative e nella formazione di lavoratori in grado di gestirle, che rappresentano quindi – per queste aziende – degli intangible assets.

Naturalmente, la tentazione di verificare se queste dinamiche potessero essere nuovamente estese dall’economia industriale all’economia dello sviluppo è stata, come ovvio (e sfruttando il fatto che in questo contesto la completezza della ricerca bibliografica non era richiesta), una reazione quasi naturale.
Così, ad esempio, il quadrante in basso a sinistra potrebbe in questo caso essere occupato da modelli locali di sviluppo basati sulla concorrenza pura. Si tratta, in altri termini, di sistemi popolati da attori le cui caratteristiche organizzative e produttive sono simili, come avviene nei sistemi produttivi caratterizzati da una forte specializzazione orizzontale: la complessità organizzativa è bassa e le interrelazioni economiche – e verosimilmente anche sociali – sono limitate per lo più alla concorrenza. Il sistema si basa poi su uno sfruttamento intensivo delle risorse naturali ed anche umane, dato che i margini per unità di prodotto sono molto contenuti e la sopravvivenza economica di questi attori è quindi delegata alla loro capacità di aumentare la scala di produzione. Questi modelli caratterizzano verosimilmente le regioni/le aree nelle fasi iniziali di sviluppo, in cui il costo del lavoro rappresenta il principale fattore competitivo: alcuni esempi possono essere (a) le aree di specializzazione produttiva nella fase del decentramento produttivo che in Italia precede la costituzione dei distretti industriali e (b) le grandi città globali dei paesi arretrati specializzate in produzioni che costituiscono i segmenti di minor valore delle global value chain.
L’aumento della sola complessità organizzativa (cfr. il quadrante in basso a destra) può essere associato ad un forte sviluppo delle interrelazioni tra le diverse fasi del processo produttivo: ciò avviene sia nel caso in cui l’intensificarsi delle interrelazioni tra gli attori avvenga per effetto di strategie gestite dalla grande impresa (cfr., ad esempio, i poles de croissance che hanno caratterizzato la politica industriale di molti paesi avanzati durante i Trente Glorieuses o le regioni costruite intorno alle Free Trade Zone nei paesi meno sviluppati), sia nel caso in cui invece avvenga in un contesto in cui operano molti attori in relazione non gerarchica (cfr., ad esempio, i distretti industriali). Dal punto di vista della sostenibilità ambientale, tuttavia, si tratta di modelli che – come già accennato – non segnano una frattura netta con il paradigma della crescita delle quantità prodotto, con l’idea che il benessere economico sia legato all’obiettivo di ottenere economie di scala (fosse ben anche solo a livello di singola fase produttiva).
Un’ulteriore possibilità è quella di porre enfasi sulla sola capacità di introdurre l’innovazione tecnica (cfr. il quadrante in alto a sinistra). Si tratta di modelli locali di sviluppo innovation based, nei quali la gestione delle dinamiche economiche – e in qualche misura, e di nuovo, anche delle dinamiche sociali – è delegata alla capacità degli attori di gestire tecnologie avanzate in modo appropriato. Costituiscono un esempio tipico di questo fenomeno le cosiddette smart city. La complessità organizzativa delle smart city è tuttavia, e a dispetto del livello delle tecnologie utilizzate, abbastanza limitata a pochi aspetti quali ad esempio, all’uso di tecnologie che abilitano ad accedere a servizi e informazioni: sono tuttavia lasciate in secondo piano sia la complessità delle interrelazioni tra dinamiche sociali e dinamiche economiche, che la possibilità che tali interrelazioni generino processi di trasformazione urbana imprevisti. Ciò potrebbe ad esempio condurre ad un’attitudine – nei confronti del tema della sostenibilità ambientale – a valutare gli effetti delle misure intraprese a livello locale, senza che tuttavia si tenga conto di come tali dinamiche locali impattino a livello globale.
Infine, si può immaginare un modello di sviluppo in grado di coniugare complessità organizzativa e capacità di gestire tecnologie evolute e che risparmiano risorse naturali. Non ne conosciamo bene le caratteristiche perché ignoriamo molti aspetti di questa trasformazione in corso, non abbiamo ancora elaborato una riflessione su come è possibile declinare un bisogno globale e di lungo periodo in termini di dinamiche locali, che si dispiegano per lo più nel breve termine. In effetti, ciò di cui siamo consapevoli è che le difficoltà a sviluppare un modello di questo tipo risiedono in primo luogo nella difficoltà ben nota a prendere decisioni che hanno una dimensione sia globale (cfr. la necessità di preservare la biosfera) che locale (cfr. la difficoltà a garantire un incremento delle condizioni di benessere delle fasce di popolazione più povere), dimensioni che spesso confliggono tra loro. In secondo luogo, esiste il tema – per la verità comune a tutti i processi di innovazione – di sviluppare nuove tecnologie per le quali non è noto se potrà esistere una domanda solvibile: quanto siamo disposti a pagare per ottenere un beneficio che sarà goduto dalle generazioni future?
In entrambi i casi, quello dell’industria delle costruzioni e quello degli approcci allo sviluppo economico, sembra desiderabile promuovere sistemi che segnino – da un punto di vista organizzativo, di gestione delle risorse ed anche sociale – una transizione da modelli collocati nel quadrante in basso/a sinistra a modelli collocati nel quadrante in alto/a destra. Resta, come si accennava, tuttavia il problema che questa transizione si scontra contro alcune difficoltà a gestirne la complessità sociale e a fornire incentivi economici che la favoriscano. In quest’ottica, si tratta in definitiva di costruire un modello – anche terrioriale – che sia sostenibile economicamente.
Ritorno al futuro: la sostenibilità economica del modello
Per concludere, occorre quindi chiedersi se questo nuovo approccio al tema dello sviluppo economico sia economicamente sostenibile o meno. Nel caso delle costruzioni, infatti, è emerso abbastanza chiaramente che la scelta del consumatore è fortemente orientata su prodotti poco complessi organizzativamente e che non considerano il tema della sostenibilità, ciò che avviene a causa dell’esistenza di un fenomeno di selezione avversa. Il consumatore non è infatti in grado di valutare correttamente la proposta dei costruttori e finisce per scegliere in base all’unico parametro che gli fornisce informazioni che egli può decifrare, vale a dire il prezzo: ovviamente, ciò comporta l’esclusione delle proposte con più elevato contenuto qualitativo e richiede, in definitiva, che vengano messi in atto sistemi in grado di segnalare la qualità delle proposte, aiutando così il consumatore a valutare correttamente le diverse opzioni.
Voglio ricordare che l’enfasi sul settore delle costruzioni dipende sostanzialmente dalla mia incapacità a generalizzare se non partendo da un’analisi empirica. Ma in realtà, queste considerazioni potrebbero essere estese anche a molte altre attività economiche: è, ad esempio, generalmente accettato che la qualità media dei prodotti tessili provenienti dal Far East sia inferiore a quella dei prodotti italiani e, tuttavia, la capacità del consumatore di valutarne correttamente il contenuto qualitativo (da questo punto di vista la media non è ovviamente un buon indicatore) lo induce spesso ad acquistare i prodotti meno costosi, mettendo così ‘fuori mercato’ i produttori nazionali di beni con qualità media elevata.
Qualcosa di simile potrebbe verificarsi anche per la scelta dei modelli di sviluppo di un’economia. Se si valutano i diversi modelli di sviluppo esclusivamente in base ai costi economici sopportati dalle imprese, è chiaro che il modello tradizionale basato sulle economie di scala e sul consumo incontrollato delle risorse naturali appare meno costoso, dato che non si tiene conto – a causa anche della difficoltà a computarli – dei costi di consumo/mancata rigenerazione della biosfera, che invece sono totalmente a carico della collettività. Temo non sia poi così difficile trovare economisti che sostengono che il tema della sostenibilità ambientale potrà essere preso in considerazione grazie ai vantaggi dell’efficienza allocativa delle risorse, riducendo quindi di nuovo problemi complessi a modelli interpretativi elementari.
Una possibile soluzione – certo ancora molto approssimativa – potrebbe consistere nel dare un prezzo alla mancanza di qualità e/o nell’incentivare modelli che garantiscono complessità organizzativa e sostenibilità ambientale. In effetti, il sistema degli incentivi/disincentivi funziona abbastanza bene quando si tratta di orientare le scelte di produttori e consumatori e quindi potrebbe essere utilmente applicato al caso in questione. Inoltre, porre dei vincoli all’operatività dei produttori, li obbliga a ricercare nuove soluzioni, a introdurre nuove modalità organizzative, a confrontarsi con saperi nuovi.
Certamente, ciò presuppone che un ente ‘regolatore’ intervenga distorcendo i prezzi di mercato per ottenere un risultato che sia considerato socialmente desiderabile. Ma credo che nessuno possa gridare al delitto di lesa maestà – in questo caso il Re è il mercato – se si limita per legge la produzione di sostanze dannose per la salute dei cittadini (come avviene, in genere, nel caso della produzione e del consumo di droghe o di materiali poco costosi ma dannosissimi come l’eternit). Insomma si rientra nel campo della gestione delle esternalità negative e – a partire da regole del gioco stabilite a priori – il sistema concorrenziale continuerà a produrre i suoi effetti, in primo luogo l’eliminazione dal mercato dei produttori più inefficienti.
Nel mentre, si sarà modellato il sistema produttivo in modo tale che, pur risparmiando risorse naturali, si potrà generare un incremento del valore della produzione e un aumento dell’occupazione: ciò avverrà tipicamente sia tassando le attività dannose/non desiderabili, che generando nuove attività che sostituiscono le precedenti.
NOTE
(1) Il progetto Interreg Skillmatch-Insubria si propone di analizzare il disallineamento tra le competenza domandate dalle imprese e quelle offerte sul mercato del lavoro. Coinvolge cinque istituzioni: per parte italiana l’Università Carlo Cattaneo LIUC, l’Università degli Studi dell’Insubria, la società di consulenza PTS CLAS Sp.A. già Gruppo CLAS S.p.A.; per parte svizzera la Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana (SUPSI) ed il Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport – Ufficio della formazione continua e dell’innovazione del Cantone Ticino. Esiste anche un sito internet istituzionale del progetto.
(2) Andrea Kalajzic, Cesare Benzi, Trend evolutivi degli approcci e dei modelli organizzativi nel mondo dell’edilizia, relazione presentata al convegno BetheGAP: verso l’edilizia 7D, CasaClima Network Lombardia, 27 maggio 2021 (è possibile trovare una sintesi qui).
(3) ANCE, Osservatorio congiunturale sull’industria delle costruzioni, ANCE – Associazione Nazionale Costruttori Edili, 2021.
(4) Ad esempio, Bagnasco considera quattro principali modalità attraverso le quali gli individui, le imprese e le istituzione si relazionano tra loro: i rapporti di reciprocità, gli scambi di mercato, gli scambi che avvengono all’interno delle organizzazioni e gli scambi politici: cfr. Arnaldo Bagnasco, La costruzione sociale del mercato, Il Mulino, 1988.
(5) Cfr. Thomas C. Schelling, Models of Segregation, The American Economic Review, vol. 59, n. 2, 1969, pp. 488-493; Thomas C. Schelling, Dynamic Models of Segregation, The Journal of Mathematical Sociology, vol. 1, n. 2, 1971, pp. 143-186. La rappresentazione grafica utilizzata per rappresentare le dinamiche del modello sono tratte da Michael Batty, Cities as Complex Systems: Scaling, Interaction, Networks, Dynamics and Urban Morphologies, in R. A. Meyers, ed., Encyclopedia of Complexity and Systems Science, Springer, 2009, pp. 1041-1071. Ho tratto molte delle suggestioni relative a questo modello dalla lettura del saggio di Cristoforo Sergio Bertuglia, Franco Vaio, La prospettiva della complessità nello studio dei sistemi urbani e regionali, e nell’economia in generale, Economia Italiana, n. 2, 2009, pp. 307-363.
(6) Il riduzionismo è un approccio metodologico in base al quale un problema complesso può essere risolto scomponendolo in parti semplici – che fanno cioè astrazione della complessità dei fenomeni -, studiando le leggi di comportamento delle componenti elementari del sistema e infine sommando i risultati parziali per ottenere una descrizione unica del fenomeno complesso (cfr. Bertuglia, Vaio, 2009). In altri termini, si assume che la natura del problema complesso non venga modificata dalla sua scomposizione in parti elementari.
(7) La letteratura sui distretti industriali aveva avuto origine come tentativo di spiegare la crescita di alcune aree italiane economicamente considerate marginali (cfr. la cosiddetta Terza Italia: Arnaldo Bagnasco, Tre Italia. La problematica territoriale dello sviluppo italiano, Il Mulino, 1984): nelle spiegazioni economiche il fenomeno dell’industrializzazione diffusa, trainata da imprese di piccola e media dimensione, svolgeva un ruolo importante e ha relegato la materia principalmente al campo dell’economia industriale: poiché non credo esiste una rassegna esaustiva della letteratura sul tema segnalo almeno i contributi fondamentali di Giacomo Becattini, ed., Mercato e forze locali: il distretto industriale, Il Mulino, 1987; Frank Pyke, Giacomo Becattini, Werner Sengenberger, eds., Distretti industriali e cooperazione fra imprese in Italia, Banca Toscana, 1991; Giorgio Fuà, Carlo Zacchia, eds., Industrializzazione senza fratture, Il Mulino, 1983; Sebastiano Brusco, Piccole imprese e distretti industriali. Una raccolta di saggi, Rosemberg & Sellier, 1989; Gioacchino Garofoli, Modelli locali di sviluppo, Franco Angeli, 1990; Gioacchino Garofoli, Economia del territorio. Trasformazioni economiche e sviluppo regionale, Etas Libri, 1992.
L’epopea dei distretti industriali si prestava peraltro ad essere utilizzata anche per spiegare le fasi di avvio dei processi di sviluppo anche nei paesi arretrati. In Francia alcuni allievi di François Perroux e Gérard Destanne de Bernis hanno utilizzato queste analisi per riorganizzare, secondo linee interpretative originali, il discorso sullo sviluppo dei paesi arretrati: tra questi vorrei almeno ricordare Claude Courlet, Pierre Judet, La crise des paradigmes, Revue Tiers Monde, vol. 27, n. 107, 1986, pp. 519-536; Claude Courlet, L’analyse de l’industrialisation du Tiers Monde: acquis théoriques et modalités d’une remise en cause, Revue Tiers Monde, vol. 29, n. 115, pp. 639-664; Bernard Pecqueur, Crise économique: crise du discours sur l’espace, Economie et Humanisme, n. 289, 1986, pp. 13-21. Nei paesi anglosassoni i lavori di Hubert Schmitz e di Allen J. Scott hanno svolto un ruolo analogo: cfr. Khalid Nadvi, Hubert Schmitz, Industrial Clusters in Less Developed Countries: Review of Experiences and Research Agenda, Discussion Paper n. 339, University of Sussex, 1994; Hubert Schmitz, Collective Efficiency: Growth Path for Small-Scale Industry, Journal of Development Studies, vol. 31, n. 4, 1995, pp. 529-566; John Humphrey, Hubert Schmitz, How Does Insertion in Global Value Chains Affect Upgrading in Industrial Clusters?, Regional Studies, vol. 36, n. 9, pp. 1017-1027; Allen J. Scott, Gioacchino Garofoli, eds., Development on the Ground. Clusters, Networks and Regions in Emerging Economies, Routledge, 2007.
(8) Michael J. Piore, Charles F. Sabel, The Second Industrial Divide. Possibilities for Prosperitiy, Basic Books, 1984 (trad. it. Le due vie dello sviluppo industriale. Produzione di massa e produzione flessibile, ISEDI, 1987).
(9) Ad esempio, Piero Tani, La decomponibilità del processo produttivo, in G. Becattini, ed., Mercato e forze locali: il distretto industriale, Il Mulino, 1987, pp. 69-92 (riedizione, con lievi modifiche, dell’articolo Piero Tani, La rappresentazione analitica del processo di produzione: alcune premesse teoriche al problema del decentramento, Note Economiche, n. 4/5, 1976, pp. 124-141).
(10) Ciò è avvenuto con il recente ingresso di alcuni importanti paesi – in particolare la Cina (2001) ed il Vietnam (2007) – nel World Trade Organization. L’abbattimento dei dazi doganali e delle restizioni quantitative alle esportazioni cinesi ha di fatto unificato il mercato mondiale, particolarmente per alcune produzioni a minor valore aggiunto in cui l’iniziale gap di competenze tra questi paesi e i paesi avanzati era meno accentuato.
(11) Il principale contributo di Daly è probabilmente Herman E. Daly, Steady State Economics, Island Press, 1991. Il grafico è invece tratto da Herman E. Daly, Economics in a Full World, Scientific American, september 2005, pp. 100-107.
(12) Cfr. Andrea Kalajzic, Cesare Benzi, Trend evolutivi degli approcci e dei modelli organizzativi nel mondo dell’edilizia, cit.
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