La partecipazione sociale come modo di complicare l’economia
È di pochi giorni fa la notizia che il rapper Fedez ha donato 5.000€, raccolti sulla piattaforma Twitch, a cinque persone selezionate dai suoi fans durante una diretta. Questa notizia ha diviso l’opinione pubblica nelle consuete due fazioni, che compaiono con puntualità quasi cronometrica quando viene “socializzata” via web: chi ha lodato Fedez (autore, tra l’altro, di diverse iniziative del genere) e chi invece si è sentito offeso dall’ineguale distribuzione del reddito che richiederebbe – a suo avviso – misure idonee a redistribuirlo più equamente quel reddito, in primis attraverso l’imposizione di una tassa sui patrimoni.
In realtà, molti degli argomenti portati dai critici hanno un qualche fondamento. In primo luogo, mi trovo d’accordo con il lato “estetico” della critica ovvero con il fatto che queste iniziative assumano gli stilemi tipici dell’hip hop americano (per intenderci à la Drake, il rapper che ha regalato quasi un milione di dollari ad alcune persone ed enti nel video del suo God’s Plan): insomma sono iniziative che mi sembrano un po’ “tamarre”, ma del resto è ben noto che sono un noto radical chic e quindi questa critica deve avere il peso che merita, vale a dire zero. In secondo luogo, si può anche concordare che questo atto di liberalità non sia stato fatto a “profitto zero” da parte di Fedez, che in questo modo ha acquisito notorietà, follower e forse anche opportunità di lavoro: credo sia certamente vero, ma in fondo credo anche che questa sia un’azione che Carlo Maria Cipolla avrebbe definito intelligente (forse poco intelligente, data l’entità delle risorse donate, ma pur sempre almeno un po’ intelligente). Infine, sono totalmente d’accordo sul fatto che sia necessario spostare la tassazione – almeno in parte – dai redditi ai patrimoni e aderisco di tanto in tanto ad attività di supporto a iniziative che vanno in questa direzione (mi permetto di segnalare l’iniziativa, tutta torinese, della Paperoniale).

Quello su cui non sono del tutto d’accordo riguarda alcune reazioni che tendono a vedere un trade off tra liberalità personale e imposizione di una tassa sui patrimoni, arrivando provocatoriamente a sostenere che “le tasse sono almeno 5.000€ troppo basse”. Insomma gli atti di liberalità sarebbero, in base a questa critica, una testimonianza del fallimento dello Stato nella redistribuzione delle ricchezze, oltre che una forma di paternalismo di cui non si sentirebbe il bisogno… pare in definitiva di capire che, in uno stato che funzioni correttamente, non dovrebbe esserci bisogno di iniziative individuali o di enti no profit che sopperiscano ad alcuni bisogni non soddisfatti dal mercato.
Dal mio punto di vista, tuttavia, questa visione si scontra con due limiti principali, che hanno a che fare il giusto (e quindi poco) con la vicenda di attualità di cui si è detto: (a) l’idea che lo Stato abbia la capacità di soddisfare tutte le esigenze che originano da fallimenti del mercato, il che presuppone che abbia conoscenza perfetta dei bisogni sociali e capacità di soddisfarli senza operare preventivamente scelte relative a quali bisogni soddisfare e in base a quale ordine di priorità; (b) l’idea che gli interventi “spontanei” di correzione dei fallimenti del mercato debbano tutto sommato essere ritenute un fallimento sociale.
Per quanto riguarda il primo aspetto, mi pare che il sottinteso è che i bisogni sociali non evolvano, che siano noti e quindi possano essere abbastanza agevolmente soddisfatti, se solo si avesse l’intenzione di farlo. Ma se rimuoviamo questa ipotesi, occorrerà riconoscere che i nuovi bisogni dovranno in qualche modo essere portati alla luce e che uno dei metodi che le società conoscono per farlo è quello di monitorare le iniziative che individui o associazioni di individui pongono in essere per risolvere un problema comune.
Per quanto riguarda il secondo punto, c’è una vasta aneddotica sul ruolo economico e sociale svolto da associazioni di individui, da far dubitare che tale regolarità segnali più un fallimento dello Stato che non un mezzo per affrontare un problema (specie nelle fasi iniziali in cui si manifesta).
Si pensi, ad esempio, al sistema precapitalistico della decima, una pratica antichissima attraverso la quale si imponeva di pagare in natura o in denaro la decima parte del prodotto dei terreni per il sostentamento del potere civile o religioso. Quando la decima è stata destinata al sostentamento del potere religioso spesso veniva in parte utilizzata per finalità sociali e, in particolare, per il sostentamento di forestieri, orfani e vedove ovvero dei poveri. Si noti che un sistema simile esiste ancora oggi nella religione mussulmana, dove viene denominata zakãt: consiste nel versamento – che è obbligatorio a partire da valori patrimoniali superiori ad una data entità (che indica convenzionalmente la soglia della povertà) – del 2,5% dei cespiti patrimoniali ed è volto proprio a sostenere le persone meno abbienti.
In epoca capitalistica, si possono poi considerare le azioni intraprese da imprenditori o comunità locali per garantire la soddisfazione di alcuni bisogni delle maestranze: si tratta ovviamente di forme di paternalismo che avvantaggiavano in primo luogo la classe imprenditoriale e quindi non ha senso costruirci sopra una retorica che può risultare fastidiosa; tuttavia, davano risposte concrete a istanze sociali chiaramente definite (1). Ad esempio, l’esperienza delle company town mostra che la grande impresa talvolta è stata in grado di ricoprire il ruolo di “forza motrice” nella costruzione di una vasta rete di istituzioni sociali, dalle abitazioni alle case di riposo per anziani, dagli ospedali alle scuole professionali: in Francia è possibile ricordare il caso della città di Mulhouse, dove le principali imprese produttrici di cotone stampato si associarono per dotare il territorio di istituzioni che si proponevano di soddisfare alcuni bisogni della popolazione; in Italia possiamo ricordare i casi della Borsalino ad Alessandria, della Dalmine nell’insediamento a cui ha dato il nome, della Solvay a Rosignano Solvay e dell’ENI a San Donato Milanese (certamente ne dimentico molte) che hanno svolto funzioni del tutto analoghe. Talvolta, la soddisfazione di alcuni bisogni elementari avveniva a seguito di iniziative personali o familiari, come ad esempio nel caso del cosiddetto système Motte a Roubaix: in questo caso, l’imprenditore finanziava la creazione di nuove imprese detenute da un membro della sua famiglia e da un tecnico di esperienza e valore, promuovendo la rigenerazione del sistema produttivo e distribuendo il rischio di una congiuntura negativa su un numero vasto di attori (quindi riducendolo).

Infine, vorrei ricordare l’esperienza particolarissima – e tutta italiana – di Comunità intrapresa da Adriano Olivetti nel dopoguerra (2) che, rifiutando il principio paternalistico, metteva tuttavia in relazione i bisogni degli individui con la dimensione locale della produzione delle risorse ovvero con una dimensione che era non “troppo grande, né troppo piccola” ma – per l’appunto – quella della comunità. In questo caso, nella visione di Olivetti, la redditività dell’impresa non è il fine dell’azione economica ma uno strumento per realizzare le aspirazione degli uomini.
Per concludere, senza scomodare troppo Fedez (ma neanche troppo poco), mi pare che la contaminazione tra azioni individuali e dinamiche sociali non debba essere eccessivamente minimizzato. Il mio timore è che questo approccio nasconda inconsapevolmente un tic che caratterizza gli economisti liberisti: ovvero che alla domanda “che cosa economizza l’economista?” anche in questo caso si debba rispondere “quella risorsa scarsa” ovvero l’amore, la benevolenza, la moralità, lo spirito civico, ecc. (3). Se queste risorse sono scarse, le si potranno economizzare o rinunciandovi totalmente, come affermano gli economisti mainstream (ma a ben vedere non ha senso: che vantaggi economici otteniamo dalla distruzione di capitale relazionale e sociale?), o affidando la produzione ad un unico ente produttore e regolatore come lo Stato, come invece sembrano preferire alcuni critici di Fedez.
In realtà, come è stato fatto notare (4), queste risorse non solo non sono scarse (dato che non c’è un limite al numero di buone azioni che possiamo fare), ma dovrebbero anche essere incrementate nei momenti storici in cui se ne ha maggiormente bisogno (ovvero nei momenti storici in cui si fa maggiormente appello all’interesse privato e meno allo spirito civico). In questo il coinvolgimento individuale e di associazioni di persone può essere di grande aiuto.
NOTE
(1) Cfr. Michael J. Piore, Charles F. Sabel, Le due vie dello sviluppo industriale, Torino, ISEDI, 1987.
(2) Cfr. Adriano Olivetti, Dalla fabbrica alla Comunità, in Il mondo che nasce, Roma/Ivrea, Edizioni di Comunità, 2014.
(3) Dennis H. Robertson, What Does Economists Economize?, Economic Commentaries, London, Staple Press, 1956 citato da Albert O. Hirschman, Against Parsimony: Three Easy Ways of Complicating Some Categories of Economic Discourse, Bulletin of the American Academy of Arts and Sciences, vol. 37, n. 8, 1984.
(4) Albert O. Hirschman, Against Parsimony: Three Easy Ways of Complicating Some Categories of Economic Discourse, Bulletin of the American Academy of Arts and Sciences, vol. 37, n. 8, 1984.
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