chiamiamolo pippo

I believe @MazzucatoM would have met way less resistance had she spoke about a “venture capitalist” State rather than an entrepreneurial State.

Giorgio Gilestro

La scienza economica…

Supponiamo di avere un amico economista e di chiedergli di che cosa si occupa. Nella maggior parte dei casi vi risponderebbe che il suo lavoro (eh sì, l’economia è una scienza triste) ha a che fare con la corretta gestione di risorse scarse ovvero sul come fare le nozze con i fichi secchi. Freddure a parte, il nostro economista potrebbe portarvi ad esempio la famosa legge della domanda e dell’offerta, che ipotizza che ognuno di noi prova a massimizzare il proprio benessere nel rispetto di un vincolo che è costituito da quali e quante risorse disponiamo: ci direbbe che potrebbe anche capitare di non avere le risorse necessarie a soddisfare proprio tutti i nostri bisogni, ma potremo comunque ottenerle scambiando le risorse di cui disponiamo con quelle del nostro vicino di casa o di chiunque altro per avere un insieme di beni che riteniamo adeguato allo scopo. E perché questo sia possibile occorre che questo scambio sia regolato da almeno un parametro che ci consenta di capire se lo scambio è in qualche modo “equo”: questo parametro è, con molte approssimazioni, il prezzo del bene.

Ora, fino a qui è la centesima replica dello spettacolo in un teatro di provincia. Quello che mi sembrava interessante domandarsi è quali sono le condizioni che consentono lo spettacolo e se queste condizioni possono variare e dare vita a un nuovo spettacolo.

In effetti lo studio delle discipline economiche si basa su due assunti quasi mai messi in discussione: a) che le risorse a nostra disposizione siano scarse e b) che sia necessario utilizzarle nel modo più efficiente possibile per soddisfare i nostri bisogni. Benché comprendere i meccanismi che regolano il secondo assunto abbia rivestito una grande importanza nel dibattito economico degli ultimi cinquant’anni (1), nel seguito vorrei occuparmi soprattutto del primo ovvero dell’idea che le risorse siano scarse.

Affermare che le risorse sono scarse significa ammettere che non bastano a soddisfare le nostre esigenze e che non possono variare nel tempo in proporzione tale da soddisfarle, queste esigenze. Ecco, il vero problema è il tempo: infatti le risorse non possono certamente variare in un intervallo di tempo breve, non si può costruire una casa o fabbricare una macchina o scoprire un vaccino in pochi giorni. Considerare il breve periodo ha un paio di implicazioni.

  • Se le risorse sono date, il massimo livello di prodotto raggiungibile è quello determinato dal loro uso ottimale: e se la concorrenza tra imprenditori li conduce ad adottare la migliore organizzazione possibile, il tasso di crescita sarà pari a zero ed i progressi che il sistema capitalistico raggiungerà saranno dovuti a fattori non economici ovvero al progresso della tecnologia, che in quest’ottica non dipende in nulla dal comportamento degli attori ma esclusivamente dai progressi della conoscenza (2).
  • Il ruolo dell’imprenditore è pertanto quello dell’organizzatore, di colui che combina in modo ottimale le risorse di cui dispone, variandone opportunamente le proporzioni di utilizzo in base alla dinamica dei prezzi.

Ma è davvero sempre così o questo impianto teorico è dipendente dall’assunzione di un dato orizzonte temporale (il breve periodo)? Alfred Marshall, che è un po’ l’antesignano della moderna microeconomia, lo aveva ben capito e aveva costruito diversi modelli interpretativi in riferimento all’orizzonte temporale dell’analisi (3).

Per il breve periodo aveva immaginato proprio quel modello di domanda/offerta descritto, che è importantissimo perché consente di espellere dal mercato gli imprenditori inefficienti: insomma, se fai la pizza con l’emmenthal invece che con la mozzarella, fai il favore e ti accomodi fuori dalla porta.

… e Pippo

Ma per il lungo periodo (nel quarto libro dei suoi Principles of Economics) aveva immaginato meccanismi economici completamente differenti che avrebbero condotto all’innovazione e quindi ad un progresso del benessere individuale che – a differenza di quanto avviene nel modello di Solow – non dipendeva da un astratto progresso della scienza ma dal concreto comportamento degli attori economici: la domanda da porsi – in questo caso – non è come fare la pizza, ma come mettere in piedi una pizzeria con tre stelle sulla guida Michelin.

In effetti, se guardiamo all’evidenza empirica, è chiaro che nel lungo e nel lunghissimo periodo le risorse non sono poi così scarse ed il problema non è come economizzarle, ma come crearne di nuove.

Il grafico, tratto da un’elaborazione su dati del Maddison Project Database, dimostra abbastanza chiaramente che negli ultimi due secoli non solo la popolazione aumenta significativamente, ma che la produzione media pro capite aumenta più che proporzionalmente, secondo un pattern quasi esponenziale.

Queste evidenze sono tutto sommato ben note, ma sono anche utili a evidenziare come quella cassetta degli attrezzi che l’economista usa correntemente non ha quasi senso se applicato al lungo periodo e forse – in riferimento a questo orizzonte temporale – sarebbe più indicato parlare di sviluppo economico, un campo di riflessione che tuttavia gli economisti “seri” tendono a confinare al terreno della sociologia o della storia economica. E’ proprio per cercare di evitare inutili polemiche, spesso legate a definizioni e quindi a questioni prevalentemente semantiche, che propongo – un po’ per scherzo e un po’ sul serio – di cambiare nome alla disciplina.

Pippo non si occupa quindi di come l’imprenditore organizza le risorse disponibili, ma quali condizioni sono necessarie alla creazione di nuove risorse, quali attori vi partecipano e qual è il loro contributo. Storicamente diversi autori si sono occupati di questo tema, ma non è l’obiettivo di queste poche righe farne una rassegna: l’obiettivo è riflettere sulla direzione da intraprendere e per farlo un minimo di evidenza empirica può forse aiutare.

Un primo spunto di analisi può essere ad esempio fornito dall’analisi dei grafici che seguono, che mettono in relazione la dinamica del prodotto interno lordo pro capite con quella delle ore lavorate e del valore aggiunto (4).

Come si può verificare dall’analisi grafica, quello che a me è immediatamente saltato agli occhi è che, se non ha senso di parlare di risparmio di risorse, in realtà esiste una variabile che il processo di sviluppo consente di risparmiare ed è il tempo di lavoro. In effetti, i grafici presentati suggeriscono che – nelle fasi iniziali del processo di sviluppo (5) – i progressi della produttività in agricoltura fanno risparmiare tempo di lavoro che viene quindi impiegato nella manifattura. Dopo un certo periodo di tempo i progressi della produttività nella manifattura consentono nuovamente un risparmio di tempo di lavoro che verrà impiegato nella produzione di servizi.

Il fatto che questo risparmio di tempo di lavoro avvenga in un periodo storico in cui l’occupazione non è mai stata così elevata a me pare per lo più un’illusione ottica, derivante dall’aumento della popolazione e quindi dall’aumento delle persone che svolgono un’attività lavorativa.

In realtà, se consideriamo i 44 paesi per cui sono disponibili i dati (6), possiamo notare come la media annua delle ore di lavoro per addetto sia decrescente, seppur di poco. Se poi segmentiamo questo insieme di paesi in quelli in cui le ore di lavoro pro capite crescono (sei paesi in tutto: Bangladesh, Cina, Filippine, India, Indonesia e Sri Lanka) e in quelli in cui invece diminuiscono (gli altri 38 paesi), possiamo notare che il calo è significativo in quasi tutti i paesi ed è compensato dal quasi straordinario sviluppo delle ore di lavoro medie nei sei paesi citati e, particolarmente, in Cina. Per verificarlo, consideriamo l’impatto sulla dinamica del prodotto interno lordo pro capite di alcune componenti ovvero della produttività del lavoro, delle ore lavorate per addetto e della dinamica demografica. In termini formali la relazione è una semplice identità contabile (7):

in cui GDP è il prodotto interno lordo, Pop la popolazione residente, L il numero dei lavoratori impiegati e h le ore di lavoro effettivamente svolte. Quindi, attraverso una trasformazione logaritmica, possiamo definire il prodotto interno lordo pro capite (GDP/Pop) come la somma di produttività del lavoro (GDP/h), delle ore mediamente lavorate (h/L) e di un indice di occupazione che è definito dal rapporto tra numero di lavoratori e popolazione (L/Pop): quest’ultimo è un parametro che dipende in misura decisiva dalla struttura demografica dei paesi analizzato (il rapporto tra giovani e anziani, tra chi può lavorare e chi non può, ecc.) più che dalla domanda delle imprese (il cui contributo è contabilizzato nelle altre due variabili) e potrebbe quindi essere considerato una proxy del tasso di attività.

Per ognuna di queste variabili è possibile calcolare, per il periodo 1971-2017, sia il peso di ciascun fattore alla creazione del prodotto interno lordo pro capite che il contributo apportato alla sua crescita, che – nel caso delle ore lavorate per addetto e della dinamica demografica – viene rappresentato nei grafici che seguono.

Come si vede, le ore lavorate per addetto costituiscono ancora il principale fattore che contribuisce alla formazione del PIL, pur se fortemente in decrescita nel corso degli ultimi quarantacinque anni. La dinamica demografica ha invece un’impatto negativo sulla formazione del prodotto interno lordo pro capite, pur se leggermente crescente.

Se invece si osserva quanto questi fattori hanno avuto influenza sulla dinamica del prodotto interno lordo pro capite (8), è possibile notare che la dinamica delle ore lavorate per addetto ha avuto un impatto lievemente negativo alla formazione del prodotto interno lordo pro capite, mentre è leggermente positivo il contributo della componente demografica. Nel complesso, queste due variabili incidono poco sulla dinamica del prodotto interno lordo pro capite.

Il ruolo economico dei fattori di natura sociale

In definitiva, quindi, sembrerebbe che lo sviluppo economico sia correlato al lavorare meno, il che è per lo meno controintuitivo per l’economia mainstream. Tuttavia, e ai lettori più avveduti non sarà certamente passato inosservato, il tempo di lavoro risparmiato e quindi anche la possibilità di creare percorsi di sviluppo cumulativi è strettamente legata alla capacità di incrementare la produttività del lavoro a parità di lavoro impiegato (incrementare la produttività riducendo il lavoro impiegato, come alcune recenti misure di politica economica hanno suggerito, nella migliore delle ipotesi non farebbe aumentare il prodotto pro capite).

In effetti, non solo il peso della produttività del lavoro nella formazione del prodotto interno lordo pro capite è rilevante e crescente nel tempo, ma la quasi totalità dei tassi di crescita del prodotto interno lordo pro capite è attribuibile proprio alla dinamica della produttività oraria.

Naturalmente, nonostante il trend di lungo periodo descritto sia supportato dall’evidenza empirica, non è affatto automatico che una maggior disponibilità di tempo per lavoratore si traduca in un aumento della produttività: il caso dei paesi con importanti quantità di risorse inutilizzate o sottoutilizzate e con bassi tassi di crescita è un esempio abbastanza plastico. Lo snodo sta, pertanto, verosimilmente nella capacità di un sistema economico di liberare risorse materiali (cfr. lavoratori) e immateriali (cfr. tempo per definire nuovi problemi, studiare, affrontare i colli di bottiglia, approntare possibili soluzioni, ecc.) da impiegare secondo modalità differenti da quelle abitualmente utilizzate: in questo caso sarebbe molto più semplice realizzare incrementi di produttività e ulteriori risparmi del tempo di lavoro.

Ecco, l’ipotesi che vorrei suggerire è che l’imprenditore innovatore sia qualcosa di diverso dall’imprenditore organizzatore e che il suo successo dipenda da condizioni di contesto che non può controllare completamente. Insomma, nel caso in cui tutto funzioni come se fossimo nel migliore dei mondi possibili, l’incremento della produttività non dipenderebbe solo dalla funzione svolta dall’imprenditore, ma anche da una altri attori sociali nonché da fattori la cui natura originaria non è necessariamente economica. Nel seguito ne elenco brevemente alcuni, scusandomi in anticipo della superficialità della trattazione e non garantendo peraltro di averli ricordati tutti.

a. Fattori di domanda – La maggior parte degli economisti mette, come visto, l’accento sulla capacità dell’imprenditore di combinare in modo ottimale i fattori produttivi e quindi su variabili di offerta. In realtà esistono alcune buone ragioni che inducono a ritenere che non sia inutile buttare un occhio anche dal lato della domanda. Uno dei contributi che più mi ha influenzato – ed ha influenzato molti autori di grandissima statura, costituendo un punto di riferimento per la nascita dell’economia dello sviluppo nel dopoguerra – risale 92 anni fa (9) e si occupa proprio di questo: sosteneva, riprendendo un’intuizione di Adam Smith, che i rendimenti crescenti dipendono dalla dimensione del mercato, il che significa – tradotto in parole semplici – che è difficile incrementare la produttività del lavoro se non si ha una ragionevole fiducia che esista un mercato di sbocco in grado di assorbire l’incremento di beni e servizi. Se questi argomenti sono in qualche modo convincenti, occorrerà chiedersi in che modo si possa incrementare la dimensione del mercato.

  • La prima risposta che viene in mente, anche per quanto si diceva in precedenza, è che la dimensione del mercato dipenda dalle dinamiche demografiche: quanto più la popolazione aumenta, tanto maggiore sarà la quantità di beni e servizi necessaria a soddisfarne i bisogni.
  • La dimensione del mercato dipende ovviamente anche dalla capacità di spesa del mercato, che può essere declinata in vari modi: ad esempio, in relazione ai salari e quindi al volume dei consumi; oppure in relazione alla propensione al consumo di diverse fasce della popolazione (una popolazione anziana avrà maggiore propensione al risparmio, mentre una popolazione più giovane consumerà ed investirà verosimilmente di più).
  • La dimensione del mercato dipende poi anche dalle preferenze del consumatore, che non sono fisse nel lungo periodo e possono orientare la direzione del cambiamento tecnologico: si pensi, a puro titolo di esempio, alle modificazione delle preferenze riguardanti il mercato automobilistico, che ha determinato uno spostamento della domanda da autovetture a forte consumo di carburante/impatto ambientale ad autovetture ibride che invece si propongono di ridurre tale impatto.

Ora, sembra evidente che tutti questi aspetti non abbiano direttamente a che fare con dinamiche efficienti di allocazione dei beni: le dinamiche demografiche non dipendono ovviamente solo dalla disponibilità di risorse (come tra l’altro dimostrato dalla dinamica demografica dei paesi più ricchi); né i salari sono storicamente determinati in un mercato ma sono piuttosto il prodotto di complesse interazioni tra parti sociali; infine, le preferenze dei consumatori variano in rapporto ai sistemi di valori e culturali – che spesso si definiscono a livello locale – prevalenti in un dato sistema socio-economico; né le preferenze variano esclusivamente in risposta a variazione dei prezzi dei fattori.

b. Mercati che ancora non esistono – Un altro strumento per promuovere le relazioni tra disponibilità di tempo/risorse e produttività è favorire la nascita di nuovi mercati che – senza adeguato sostegno – non avrebbero la dimensione necessaria a rendere conveniente la produzione di una dato bene o servizio.

  • Un caso classico di fallimento del mercato è relativo al sistema creditizio. Infatti, come è noto, l’innovazione è un’attività che comporta un elevato numero di fallimenti ed è quindi molto rischiosa per un mercato del credito tradizionale, generalmente basato sulla disponibilità di garanzie di cui queste imprese non sempre dispongono. Lo sviluppo di un mercato privato del venture capital o il sostegno pubblico ad attività innovative allo stato iniziale della propria attività possono costituire soluzioni a questo fallimento del mercato.
  • In secondo luogo, si considerino attività il cui volume della domanda è molto basso a livello locale, ma può raggiungere soglie che favoriscono la creazione di nuove attività a scala più ampia: si pensi, in questo caso, al tipico caso di scuola costituito dalla fornitura di cure per le malattie rare, che potrebbero essere molto costose se fornite localmente ma convenienti se si soddisfa una domanda sovralocale.
  • Infine, si consideri il caso di mercati che di fatto non esistono ancora ma che potrebbe essere conveniente incentivare. Ad esempio, il tema della sostenibilità ambientale del sistema socio-economico è apparso nel dibattito circa mezzo secolo fa, ma la domanda di questo bene è stata a lungo non solvibile (pochi avrebbero allora pagato per avere un ambiente meno inquinato). Tuttavia, oltre al mutamento delle preferenze cui si è accennato in precedenza, interventi regolatori che impongano l’adozione di condizioni di vita e sistemi produttivi più rispettosi di un equilibrio con la dotazione delle risorse naturali possono consentire lo sviluppo di nuovi mercati (10).

Nuovamente, a dispetto della narrativa molto in voga dell’imprenditore innovatore, in casi molto rari la soluzione a questi fallimenti del mercato passano attraverso una soluzione esclusivamente di mercato (mi viene in mente solo il mercato del venture capital). Nella maggior parte dei casi, queste esperienze hanno successo se sono coinvolti una pluralità di attori istituzionali e non: si pensi ai finanziamenti pubblici per lo sviluppo delle start up, al coordinamento – pubblico o da parte di organizzazioni che ne fanno la propria mission – necessario a creare soglie di domanda che stimolino la nascita di nuove attività, ecc.

c. Fattori che ancora non esistono Per concludere, mi sembra valga la pena considerare che lo sviluppo della produttività può essere incentivato se il tempo di lavoro risparmiato viene investito in quella che Paul Romer ha chiamato la produzione di idee. Come si producono le idee? In primo luogo, ciò è possibile attraverso il progresso della ricerca di base. In secondo luogo, è possibile implementare la capacità di applicare le nuove conoscenze alla nostra vita quotidiana, da quella che passiamo nella nostra abitazione (cfr., ad esempio, l’impatto della domotica) ai luoghi di svago (cfr., ad esempio, le tecnologie applicate al turismo, allo sport, ecc.) e di lavoro (dall’AI al machine learning, dall’Internet of Things a quella che Alfonso Fuggetta chiama la “catena del valore del dato” (11)). Infine, occorre che tali nuove conoscenze possano essere gestite da chi le produce e da chi ne fruisce: ciò richiede la modificazioni delle nostre conoscenze riguardo a questi processi, la trasformazione delle precedenti competenze in nuove competenze, un processo in larga parte assolto dal sistema formativo. E questo è, ancora una volta possibile, se si mettono insieme una pluralità di attori, non necessariamente esclusivamente imprenditori ma anche le istituzioni nazionali e locali, le cosiddette autonomie funzionali come scuole ed università e le comunità locali che in qualche modo influenzano le modalità con cui questi diversi attori si pongono in relazione tra loro (si pensi, ad esempio, come è diversamente declinato il processo educativo e formativo in Europa e nel mondo).

Una nota finale come conclusione. Credo che se chiedessimo ad un imprenditore come si fa ad aumentare la produttività della propria impresa, risponderebbe che – nel caso le condizioni lo permettessero – il metodo più sicuro sarebbero quello di investire e non ridurre i costi di produzione (ridurrebbe i costi di produzione solo se non riuscisse ad avere i mezzi finanziari necessari ad investire): in questo modo sarebbe infatti certo che otterrebbe una maggior quantità di prodotto a parità di costi.

Forse sbaglio. Se però non fosse, se fosse davvero così che si incrementa la produttività del lavoro, allora sarebbe bene prendere in considerazione che anche le variabili di domanda – e gli investimenti lo sono, essendo un modo di impiego delle risorse – svolgono un ruolo importante nell’incrementare la produttività del lavoro. Riflettere sugli investimenti, sulla loro natura e sul loro impatto sulla crescita economica e sociale, credo sia uno degli obiettivi che è necessario porsi nel prossimo futuro.


NOTE

(1) Come si diceva in precedenza, il prezzo ha un’importanza rilevante per consentire che lo scambio sia regolato efficientemente. Tuttavia, nell’ultimo mezzo secolo si è venuta rafforzando la presa di coscienza che il prezzo non contenga tutte le informazioni necessarie ai contraenti lo scambio e ciò ha generato una crescente mole di studi relativi a questo tema. Si pensi, ad esempio, alla difficoltà ad valutare la qualità di un oggetto “di seconda mano” attraverso il suo prezzo: per chi ne ha voglia, il saggio di George Akerlof, The Market for “Lemons”: Quality Uncertainty and the Market Mechanism, The Quarterly Journal of Economics, vol. 84, n. 3, 1979 si occupa di questi temi in modo veramente originale e non eccessivamente formalizzato.

(2) La teoria della crescita aveva tratto ispirazione dal dibattito post-marshalliano sulle economie esterne/dimensione di impresa ed aveva ricevuto un decisivo impulso dalla contaminazione di questi temi con la teoria keynesiana: di fatto i primi modelli che formalizzavano la crescita economica – quello di Harrod e Domar (cfr. Roy F. Harrod, An Essay in Dynamic Theory, The Economic Journal, vol. 49, n. 193, 1939; Evsey Domar, Capital Expansion, Rate of Growth, and Employment, Econometrica. vol. 14, n. 2, 1946) e quello di Kaldor-Verdoorn (cfr. Petrus Johannes Verdoorn, Fattori che regolano lo sviluppo della produttività del lavoro, L’industria, n. 1, 1949; Nicholas Kaldor, Causes of the Slow Economic Growth of the United Kingdom, Cambridge University Press, 1966) – sono considerati modelli di ispirazione keynesiana. Il modello di Solow, che si proponeva di riportare il tema della crescita economica in un’ottica tipicamente marginalistica, dimostrò che i processi di crescita sono originati da fattori esogeni al sistema economico (cfr. i progressi della scienza) e che tendono allo stato stazionario o steady state: si veda Solow, A Contribution to the Theory of Economic Growth, The Quarterly Journal of Economics, vol. 70, n. 1, 1956.

(3) Cfr. Alfred Marshall, Principles of Economics, Macmillan, 1^ ed. 1890.

(4) Cfr. Berthold Herrendorf, Richard Rogerson, Akos Valentinyi, Growth and Structural Transformation, in Philippe Aghion, Steven N. Durlauf, eds., Handbook of Economic Growth, vol. 2, North-Holland, 2014.

(5) In realtà, nei grafici la quota settoriale di ore lavorate/valore aggiunto non è in relazione alla variabile temporale ma alla dinamica del prodotto interno lordo pro capite: tuttavia, come si è visto, la dinamica del prodotto interno lordo procapite cresce – a meno di casi particolari – progressivamente nel tempo.

(6) Si tratta di Argentina, Australia, Austria, Bangladesh, Belgio, Brasile, Canada, Cile, Cina, Colombia, Corea del Sud, Danimarca, Filippine, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Hong Kong, India, Indonesia, Irlanda, Italia, Giappone, Lussemburgo, Malesia, Messico, Myanmar, Nuova Zelanda, Norvegia, Paesi Bassi, Pakistan, Peru, Portogallo, Regno Unito, Singapore, Spagna, Sri Lanka, Stati Uniti, Svezia, Svizzera, Taiwan, Tailandia, Turchia, Vietnam.

(7) Cfr. Giorgio Fuà, Problemi dello sviluppo tardivo in Europa, Il Mulino, 1980 e Bruno Pellegrino, Luigi Zingales, Diagnosing the Italian Disease, NBER Working Paper, n. 23964, 2019 (la prima versione di questo saggio è del 2014).

(8) Ho usato, in questo caso, una tecnica – la cosiddetta tecnica annual chain-linking – generalmente utilizzata per calcolare il contributo delle componenti di domanda alla dinamica del prodotto: si vedano, ad esempio, Amanda Tuke, Analysing the effects of annual chain-linking on the output measure of GDP, Economic Trends, n. 581, 2002 e Joe Robjohns, Contributions to growth rates under annual chain-linking, Economic & Labour Market Review, vol. 1, n. 6, 2007. In questo caso, ho applicato questa metodologia alla relazione descritta dall’equazione nel testo e ho considerato un periodo di tempo un po’ più lungo dell’anno (eh sì, sono quasi 50 anni).

(9) Allyn A. Young, Increasing Returns and Economic Progress, The Economic Journal, vol. 28, n. 152, 1928.

(10) A mio avviso, anche le politiche di controllo demografico rientrano in questa categoria: come si è visto, infatti, la popolazione cresce a ritmi quasi esponenziale mentre le risorse naturali possono essere incrementate di poco, al limite possono essere usate più efficientemente. Inoltre, i tassi di crescita demografica sono molto diseguali localmente, mentre la distribuzione delle risorse naturali è più omogena, ciò che crea problemi di coordinamento (cfr. la crescita repentina dei flussi migratori) gestibili con grande difficoltà.

(11) Alfonso Fuggetta, Le tecnologie digitali al tempo di Covid-19, Rivista di Politica Economica, numero speciale su La trasformazione digitale: sfide ed opportunità per l’economia italiana (a cura di Gianpaolo Galli), n. 1, 2020.


Questo contributo è rilasciato con licenza Creative Commons. Puoi quindi condividerlo (riprodurre, distribuire, comunicare al pubblico, esporre in pubblico, rappresentare, eseguire e recitare questo materiale con qualsiasi mezzo e formato) e/o modificarlo (remixare, trasformare il materiale e basarti su di esso per le tue opere) per qualsiasi fine, anche commerciale. Se lo ritieni puoi citarlo come Cesare Benzi, chiamiamolo pippo, interazioni.blog, 1 dicembre 2020.

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